Nella foto: Indosso uno dei soli 350 pezzi prodotti nel mondo di questo modello H&M. Foto scattate nei camerini di H&M Paris (proprio a fianco di Lafayette...) <3
H&M E IL TREND DELLA CAPSULE COLLECTION
Vera democratizzazione della moda o semplice Business?
Si stima che
ci siano circa una trentina di donne al mondo che possano permettersi l’haute
couture da passerella. Per tutte le altre donne c’è il prêt-à-porter. Ed oltre al pronto moda delle grandi maisons si
estende l’impero delle multinazionali della moda al minor prezzo, prime fra
tutti: H&M e Zara. Questi marchi si sono fatti conoscere per aver portato
avanti da sempre l’idea di una moda alla portata di tutti.
Inizialmente
dentro questo genere di distribuzione si poteva trovare quello che, in maniera
politicamente scorretta, si sarebbero potute definire copie a basso costo (e scarsa qualità) dei trend da passerella.
Successivamente
poi il mercato si è raffinato; le silhouettes sono diventate di design, con
stilisti che lavoravano alla ricerca di uno stile dedicato al brand, e non una
mera imitazione di altre case.
Fino ad
oggi. Perché oggi stiamo vivendo la terza fase di questo mercato del
cheap-to-wear. Ora sembra che a Zara ed H&M non basti più avere l’egemonia
della più ampia fetta di mercato al mondo nel settore dell’abbigliamento
economico. Ed attraverso due differenti vie, entrambe le etichette cercano di
elevare il loro prodotto: nel caso di Zara facendo lavorare gradi firme
dell’alta moda (ndr John Galliano) per una delle linee interne al brand. Il
colosso svedese invece da anni applica ormai una politica differente.
Sotto il
nome di H&M escono periodicamente le così dette capsule collection di grandi designer di fama internazionale (il
primo ad inaugurare quest’esperimento fu Karl
Lagerfeld, che collaborò con H&M nel 2007), che si prestano ad una
produzione, seppur di massa, comunque a tiratura più limitata del consueto giro
d’affari di H&M, di alcuni capi da loro disegnati.
A volte va
meglio di altre (la collezione di Marni nella primavera scorsa andò esaurita il
giorno stesso che fu presentata negli store, mentre quella di Anna dello Russo,
lo scorso autunno, rimase invenduta per la maggior parte); a volte gli stilisti
interpellati a prestare la loro penna creativa disegnano modelli dedicati,
altre semplicemente si limitano a rispolverare cartamodelli storici (come ha
fatto Maison Martin Margela in Novembre).
Infine tra
innovazioni apportate dalla direzione H&M c’è stata anche quella di attuare
una diversificazione della produzione. È rimasto a marchio H&M tutto il
ready-to-wear di sempre, a costi contenuti e forme basiche. Mentre la ricerca,
che prima o poi ogni casa di moda tenta di attuare, è stata posta sotto il nome
di COS, pur rimanendo di fatto sempre della stessa produzione. Il marchio COS,
se non altro nelle intenzioni, dovrebbe porsi come di innovazione, ricerca di
nuove forme/volumi, e, di conseguenza, anche inevitabilmente più costoso.
E qui
veniamo al punto: ne vale davvero la pena?
Questi capi
di ricerca, queste capsule collection, le famigerate limited edition, valgono
davvero quello per cui pretendono di vendersi?
Sinceramente
la mia opinione è no. Va bene alla
ricerca, approvo la continua innovazione, perché la moda è dinamica e mutevole,
è nella sua essenza esserlo, ed è giusto che così sia. Ma è anche vero che se
paghi una maglietta di Zara nove euro è perché di più non varrebbe; perché è
fatta con un metodo in catena di produzione che permette un quantitativo
immenso, a scapito della qualità, inevitabilmente. Quindi, seppure dietro c’è la penna di
Donatella Versace, gli stessi abiti, prodotti dalla filiera H&M e dalla
casa di moda Versace, con i suoi metodi certificati e i suoi materiali,
assumono tutt’alto valore.