Helen Mirren e Richard Bohringer in una scena del
film “Il Cuoco, Il Ladro, Sua Moglie e L’Amante”, regia di Peter Greenaway,
anno: 1989.
“Il cuoco, il Ladro, sua Moglie e l'Amante” è un film realizzato nel 1989
da Peter Greenaway, che ne ha scritto la sceneggiatura e diretto magistralmente
la regia. Nel cast figurano, tra gli altri, Richard Bohringer, nei panni di Richard
Borst, “il cuoco”; Michael Gambon, il perverso e villano gangster Albert Spica,
ed Helen Mirren, nel ruolo della moglie di Spica, la protagonista. Il film è un
noir, noto per la sua interpretazione di cannibalismo, ai limiti della
perversione, e per le inquadrature senza veli nelle scene di sesso; così come per
il suo design d’interni sontuoso e i lenti passaggi di scena panoramici, chiaro
retaggio del bagaglio esperienziale di Greenaway, che nasce come regista
teatrale, prima ancora che come cineasta.
Ed oltre che nel gusto per una trattazione ampiamente gestuale, derivante
dal teatro, questa particolare sensibilità estetica si nota, in massima misura
anche a paragone tra gli altri lavori dello stesso Greenaway, nella cura
ossessiva dei dettagli. Le scene opulente, barocche, di immediato impatto,
sembrano costruite per parlare da sole. A riprova di ciò vi è la scarsa
necessità di dialoghi, di fatto scarni e sporadici nell’intera narrazione,
contrapposta al ridondante baccanale per gli occhi offerto dalla scenografia.
A corredare la magnificenza dell’allestimento scenico, è stato chiamato Jean-Paul
Gaultier, designer per eccellenza della trasgressione anni ’80, ma sempre con
stile.
Non si sarebbe potuta fare scelta più azzeccata. Gli abiti dello stilista
francese si sposano alla perfezione, sia con le scene, che con la narrazione,
con la loro carica sessuale esplicita – chiaramente riscontrabile specialmente
nelle iconiche coppe a punta dei reggiseno – tanto che la domanda sorge
spontanea: quanto le pregresse impostazioni dell’intero progetto abbiano
influito sul processo creativo del Gaultier-costumista, e quanto invece sia
possibile che, viceversa, il prepotentemente immaginifico mondo del couturier
abbia “dettato legge”?
Ad avvalorare tale tesi si possono citare i
frequenti cambi di scena, e di conseguenza d’abiti, della prima attrice. Perché
ad ogni ambiente corrisponde un colore, e tutto vi deve essere intonato;
quindi, per esempio, nel momento in cui dalla sala da pranzo, dove il rosso
predomina, si passa alla toilette, dove il candore immacolato dei marmi inonda
la vista, con un effetto a metà tra gli interni in stile Philippe Stark e un
rimando a Kubrick in “2001 Odissea nello Spazio”, anche il cambio d’abiti
diventa doveroso. Stesso copione per il passaggio nei locali della cucina,
tutti sui toni soffusi del verde, come un chiaro richiamo ad un’idea di cucina
prevalentemente vegetariana, in assoluto contrasto con il colpo di scena
finale, votato al cannibalismo forzoso.
Per parte mia l’esperimento è da considerarsi non
solo interessante, ma anche positivamente riuscito. Le forme scultoree, a
prescindere dal colore degli outfit, sono fortemente evocative e lasciano
aperto il campo per un’analisi introspettiva dei caratteri dei personaggi che
li indossano, supportando in tal modo quella che sarebbe altrimenti stata
percepita come una carenza nella trattazione: il quasi assordante silenzio dei
protagonisti, stemperato nel chiasso indistinto della figura antagonista,
tratteggiata volutamente con pochi tratti rozzi, e magistralmente interpretata
da Michael Gambon.
L’unica nota stridente è forse l’eccessiva enfasi posta nella maniacale
cura dell’abbigliamento femminile, quando invece i vari personaggi maschili
risultano molto più sobri, e quasi rischiano di passare inosservati, o, per lo
meno, non così strettamente necessari allo svolgersi della vicenda.